La letteratura poliziesca giapponese e le sue origini classiche

A cura di Claudio Mattia Serafin (2021)

Disgiungere l’aspetto conturbante, se non anche giallo (thriller, secondo la dicitura anglosassone), dalla narrativa moderna giapponese è quasi impossibile.

Difficile qualificare i loro romanzi come polizieschi; ancor più ostica risulta l’enucleazione di una spiritualità che gli è propria, e che non può essere definita né capita a pieno da noi (lettori) occidentali.

È un misticismo che già pervade ogni singolo incipit dei loro romanzi, dei racconti, di ogni forma narrativa. Vero è anche che le loro trattazioni scientifiche e la saggistica sono caratterizzate da un’esposizione impeccabile, cristallina, ordinata da un punto di vista logico, tale da rasentare un’armonia che ha, appunto, del sovrannaturale.

Grande sponda, a partire già dagli anni Cinquanta, inizia ad avere il genere della suspense, in cui il rigore della tradizione (Yukio Mishima, il Premio Nobel Yasunari Kawabata) inizia a fondersi con un moderno gusto per il mistero.

In questo senso forse il capostipite può essere considerato Seichō Matsumoto, il cd. Simenon del Giappone. I casi di cui si occupa un ispettore dall’atteggiamento assente sono connotati da giochi di incastri quasi difficili da seguire (immaginiamoci da congegnare!): si prenda ad esempio il gioco dato dall’orario di coincidenza dei treni, ottimo escamotage narrativo utilizzato in Tokyo Express (Adelphi, 2018).

Il re indiscusso di atmosfera, colpi di scena e stile è senza dubbio, per apprezzamento di critica e vendite, Keigo Higashino, il quale ha ideato la saga seriale del cd. detective Galileo, un professore di scienze, caro amico di un investigatore di polizia dai modi spicci. I due interagiscono felicemente, scambiandosi i punti di vista sulla vita e sulle indagini. In ogni caso (ad esempio in L’impeccabile e Il sospettato X, entrambi editi da Giunti, unici romanzi della serie tradotti in Italia) la vicenda ruota attorno a pochi personaggi, due o tre gesti fatali, una sola stanza in cui verifica il fatto: un delitto da camera, si potrebbe dire. La maestria dell’autore sta nell’offrire diversi punti di vista e prospettive, che poi conducono a un’unica soluzione. Higashino è un ex ingegnere informatico, e la sua formazione matematica senz’altro lo induce a rifuggire qualsiasi intreccio di stampo paranormale o folklorico: cosa che invece si verifica nelle affascinanti narrazioni di molti scrittori dell’orrore e del gotico nipponici (come anche del paranormale, dell’occulto, dell’esoterico e quant’altro, specie nelle loro fusioni con i miti e le mistificazioni religiose di ogni dove: ottimi ingredienti per dare luogo a trame allucinate e vicine alla sensibilità underground dei giovani lettori).

Kōji Suzuki, ad esempio, ha ideato un’inquietante saga, famosa in tutto il mondo (The Ring, nelle sue varie versioni e finanche parodie), all’interno della quale alcuni personaggi si interessano alla vicenda di un misterioso videotape che sembra portare alla morte coloro che ne prendono visione. In Italia è edito da Nord, edizione peraltro di difficile reperimento. In punto di intreccio, dietro il mistero sembra celarsi un’attrice teatrale caduta in disgrazia, ma è anche vero che la genialità compassata dell’autore pone sotto esame tutte quante le dramatis personae: addirittura un amico del protagonista non ricorda con precisione se ha violentato una sua collaboratrice, ergo non sa se sentirsi o meno in colpa.

Il grottesco del gesto grave e (in)compiuto è presente anche in molti romanzi del celebre Haruki Murakami, ove l’atto sessuale è eseguito solo nella sua fase onirica, mentre fisicamente svolto da alcuni “doppi”, manifestatisi nel mondo reale. Le conseguenze, come la gravidanza o il ricordo del gesto, sono altrettanto reali (1Q84 Volumi 1 e 2, L’assassinio del commendatore – Seconda parte, L’incolore Tazaki Tsukuru e i suoi anni di pellegrinaggio, L’uccello che girava le viti del mondo, tutti editi in Italia da Einaudi con prestigiose traduzioni di G. Amitrano, A. Pastore, ecc.). La sessualità e i colori della passione costituiscono da sempre movente importante per ogni trama thriller, ma la grandezza degli scrittori giapponesi sta proprio nel sublimarla, nel renderla davvero seducente e al contempo naturale, quanto a volte grottesca e al di là di ogni perché (adottando quindi la pura ottica psicoanalitica).

Natsuo Kirino, affascinante e carismatica scrittrice originaria di Kanazawa (1951) in questo senso si è spinta al di là di ogni limite sperimentato, ideando capolavori del dolore e della psiche torturata. Si staglia ad esempio nella sua produzione Una storia crudele (Neri Pozza, 2011), resoconto dei mesi di prigionia di una bambina, la quale divenuta adulta non riesce più a distinguere i fatti dai suoi ricordi distorti: l’autrice stessa arriva addirittura a mettere in dubbio che il rapimento sia mai avvenuto. Una lettura piuttosto tesa, molto coinvolgente, ma davvero difficile da accettare in tutte le sue sfaccettature. Forse una provocazione metaletteraria?

La Kirino è considerata una femminista, una feroce critica del patriarcato, a sua volta duramente attaccata dall’opinione pubblica: ma la sua mastodontica preparazione letteraria e le sue doti fanno auspicare che vere femministe e leader di genere come lei possano emergere e avere voce. I suoi romanzi sono dei capolavori, al di là di ogni filone letterario noto (Pioggia sul viso, una delirante detective story, il pulp de Le quattro casalinghe di Tokyo, L’isola dei naufraghi).

A mezza via tra la sensibilità classica e l’immaginazione sconfinata di Murakami si pone invece un’altra donna, Yoko Ogawa, che con i suoi racconti di Vendetta (Il Saggiatore, 2014) oppure L’anulare (Adelphi, 2007) conduce il lettore in trame letterarie paradossali e caratterizzata da forti venature fiabesche, con interventi saltuari di qualche strano e silenzioso deus ex machina.

Ogni giapponese che scrive ed esprime la propria visione ha un’identità ben precisa, che alimenta la spasmodica curiosità della comunità dei lettori occidentali, bramosi di capire quel mondo.

Altrettanto forti sono l’orgoglio e la dignitosa voglia di tali scrittori di essere letti e capiti.

Ognuno di loro può essere identificato con un suo eventuale corrispettivo (c’è chi ha parlato di Tanizaki come di un possibile “Poe”): anche qui, un gioco di specchi, o del doppio.

È anche vero che la deriva thriller della letteratura giapponese è solo una delle sue tante espressioni.

I Maestri come Yasushi Inoue o il succitato Mishima erano talmente prismatici nel loro dire, nel loro avvincere il lettore (come in Occidente avrebbe insegnato il latino Quintiliano…) da poter essere considerati giallisti, o romanzieri storici.

In questa sede è forse più opportuno qualificarli globalmente, nella loro interezza e caratura morale, ovverosia come scrittori e grandi della letteratura, delle arti e del pensiero orientale novecentesco.

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