I DELITTI DI WHITECHAPEL

Le storie conducono gli autori lungo binari non previsti più spesso di quanto capiti ai lettori. È il caso de I delitti di Whitechapel.
Quando Massimo Polidoro ed io abbiamo deciso di scrivere insieme questa storia, siamo partiti dall’idea di concentrarci su Jack lo Squartatore, sui suoi delitti, sulle atmosfere vittoriane e sull’identificazione di un possibile colpevole. Man mano che acquisivamo informazioni, però, abbiamo capito di avere per le mani un altro tipo di documento storico e ben più importante. La nostra curiosità si è così spostata dalle gesta feroci del serial killer di Whitechapel alla vita spesso travagliata delle sue sfortunate vittime, di cui poco si sa.
La letteratura è piena di racconti e romanzi (e saggi) sulla figura del primo assassino seriale della storia. Il focus di questi libri, tuttavia, è esclusivamente la caccia a Jack e il tentativo di dargli un’identità precisa. La stessa svista che stavamo per commettere anche noi.
La domanda che a quel punto ci siamo posti è stata: chi erano davvero le vittime della sua follia omicida?
Lo spiega molto bene la storica Hallie Rubenhold nel suo saggio riccamente documentato Le cinque donne (Neri Pozza Editore, 2020). È da questo testo fondamentale che è iniziato il vero viaggio de I delitti di Whitechapel.
Attraverso una capillare ricerca negli archivi della Polizia Metropolitana, nei registri scolastici, parrocchiali e comunali, fonti online certificate, una corposa bibliografia di oltre centocinquanta volumi sull’argomento e altrettanti articoli dell’epoca, la Rubenhold dipinge un affresco nuovo, originale e soprattutto autentico delle donne che ebbero la sfortuna di incontrare “uno degli uomini più famosi del mondo”. Per comprendere l’equivoco storico che da sempre è associato ai delitti dello Squartatore, definito assassino di prostitute, bisogna considerare la percezione della donna e il suo status nella Londra vittoriana. E distinguere poi tra la vita di una donna inglese dell’alta società e quella di una della classe operaia. In quest’ultimo caso, la donna occupava uno dei gradini più bassi della scala sociale. Non poteva votare, né possedere proprietà o libretti di risparmio, e non poteva esercitare che poche
professioni, naturalmente sottopagate e non sindacalizzate. A dispetto di tale pochezza giuridica, era vista come l’angelo del focolare, colei che si prendeva cura della casa, del marito e dei figli, senza ricevere nulla in cambio, come puro dovere. Salvo che, non appena una di queste condizioni veniva a mancare (perché il marito moriva o subiva un tracollo finanziario o aveva un’amante e sbatteva fuori di casa la moglie) l’angelo della casa diventava in un batter di ciglia una fallen woman, una donna perduta. La mancanza di una rendita fissa, infatti, e di un tetto certo sopra la testa portava la donna ad affidarsi in primis alla famiglia di origine. Qualora la famiglia non potesse o non volesse provvedere a lei (spesso la colpa del fatto che il marito si era trovato un’altra donna ricadeva sulla moglie, rea di non aver assecondato e servito a dovere il suo sposo), la poveretta ricorreva alle workhouse (istituzioni create con lo scopo di offrire ricovero e sostentamento ai poveri, ma che ne sfruttavano spesso il lavoro e senza retribuirlo), oppure cominciava un lento e rovinoso declino vivendo di espedienti (mercatini, ricami, saltuarie occupazioni come domestica) in squallide stanze ammobiliate o sopra un sudicio pagliericcio presso una delle tante pensioni dei bassifondi. Qualche volta capitava che, per paura e disperazione, si accompagnasse a un uomo e allora era immediatamente bollata come prostituta. In ogni caso una donna caduta era segnata a vita e la risalita sociale era pressoché impossibile. A ciò si univa l’abuso di alcol, che accomunava molte di queste donne fragili. Un sollievo temporaneo alle delusioni della vita.
“Battere il marciapiede”, inoltre, era una frase comune in quegli ambienti, ma aveva un significato diverso da quello che intendiamo oggi e che intesero, all’epoca, l’opinione pubblica e soprattutto la stampa, che, affamata di sensazionalismo, depredò le testimonianze, inventò, modificò, infarcendo i resoconti di inesattezze e incongruenze (un vizio, quello della disinformazione, tutt’altro che scomparso). “Battere il marciapiede” voleva dire andare avanti e indietro, giorno e notte, alla ricerca di qualche penny per pagarsi un po’ di cibo e un letto per la notte (e una bottiglia o almeno un paio di bicchieri) o, in alternativa, per trovare un cortile o l’androne vuoto di un palazzo dove riposare qualche ora. Un’estenuante ricerca di denaro per sopravvivere fino al mattino dopo. Ecco dunque chi erano le vittime di Jack lo Squartatore. Donne sole, divorziate o vedove, spesso con una dipendenza dall’alcol. Donne che avevano un nome e un cognome. Che avevano padri, madri, mariti e figli. Non erano prostitute. Purtroppo, la decisione su chi fosse o meno una prostituta era affidata al giudizio dei poliziotti, i quali registravano come tali praticamente tutte le donne che si aggiravano per la strade dopo il tramonto. Scrive Hallie Rubenhold: “Etichettare le vittime come «solo prostitute» permette persino oggi a chi scrive di Polly, Annie, Elizabeth, Kate e Mary Jane di screditarle, sessualizzarle e disumanizzarle.” I delitti di Whitechapel cerca di raccontare, seppur in forma romanzata, le loro storie utilizzando nella narrazione il punto di vista della figlia (realmente esistita) di una di queste donne, Catherine “Kate” Eddowes. Insieme a lei percorriamo un sentiero di scoperta, dove i nostri pregiudizi vengono smontati e le nostre convinzioni ricostruite. Le analogie con l’attualità, fatta di violenze, abusi, femminicidi e sessismo, sono immediate. Quando sentiamo frasi come “se l’è cercata”, “se l’è voluta”, non facciamo che ripetere gli errori che l’opinione pubblica commise nel 1888, quando Edward Fairfield, un membro del Governo, dichiarò al Times: “È un bene che queste reiette siano finite nelle mani di un genio chirurgico sconosciuto. L’assassino ha dato il suo contributo alla soluzione del problema di come liberare l’East End dai suoi abitanti dissoluti.”
Scrive ancora la Rubenhold: “Quando riproponiamo la leggenda indiscussa dello Squartatore sui giornali, nei documentari televisivi e in rete […] senza analizzare le origini della storia e le sue fonti, senza considerare l’affidabilità delle prove o dei presupposti che hanno contribuito ad alimentarla, non solo contribuiamo alla perpetuazione delle ingiustizie commesse nei confronti di Polly, Annie, Elizabeth, Kate e Mary Jane, ma giustifichiamo le più abiette forme di violenza”.

Guido Sgardoli

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